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La nuit juste avant les forêts

Un applauso accalorante ringrazia Pierfrancesco Favino, il teatro lo consacra come uno degli attori migliori dei nostri tempi. Il Kismet si conferma il teatro da me preferito per le emozioni che solo quel palco sa regalare.

Sulla scena c’è un solo personaggio, anzi non c’è un personaggio c’è uno straniero. Uno di quelli che incontri con facilità quando vai al supermercato o ti fermi al semaforo e quasi non lo calcoli, ci passi davanti sbadatamente senza guardarlo negli occhi e senza soffermarti su quale sia la sua storia, da dove provenga, quali siano stati gli eventi che lo abbiano spinto ad abbandonare la sua casa, la sua famiglia, la sua Terra per arrivare fino qui attraversando deserti, mari, confini, magari su uno di quei barconi della morte.

Ieri sera, ho deciso di guardare quegli occhi attraverso l’interpretazione, magistrale, di Pierfrancesco Favino che, servendosi delle sole parole di Bernard-Marie Koltès è riuscito a condurmi in un’altra realtà, parallela alla mia, fatta di dolore, sofferenza, atrocità, sfruttamento, odio e indifferenza.

In poche pagine senza punteggiatura il drammaturgo e militante comunista francese è riuscito a unire parole con un significato intriso di valore e sentimento. Riemerge tutto il suo temperamento giovanile e il testo appare un grido disperato, in cui le situazioni sono condotte all’estremo fino al paradosso per poter riuscire a restituire la voce a chi non l’aveva e non la ha ancora oggi.

Lo spettacolo è legato strettamente all’attualità fatta di sgomberi forzati, morti innocenti e diritti rimossi.

Inizia con una pioggia fitta che non permette di vedere oltre il palmo della tua mano. È lì, sotto quella pioggia che vive lo straniero, fai finta di ignoralo ma esiste e ti tocca, parla e lancia disperati segnali di aiuto perché è emarginato. «Quando vai oltre che tutto si confonde» e allora il diverso appare ai nostri occhi come una ladra, uno stupratore, un assassino efferato, una prostituta, un barbone ubriaco in cerca di un’altra bottiglia di birra, queste sono immagini predeterminate, pregiudiziali, nei confronti di chi non conosciamo e che vorremmo rimuovere dalla nostra vita, tanto chi se ne importa, restasse a casa sua.

Da qui si sviluppa il monologo in crescendo che porta lo straniero all’esasperazione di fronte all’ipocrisia della realtà che si mostra in tutto il suo essere incoerente e omologata in cui tutti seguono la corrente dominati dal consumismo e dall’opulenza, dalla lotta con l’altro per arricchirsi.

Sempre più lontano dalla sua casa, sempre più straniero, sempre più ultimo, sempre più solo, sempre più sfruttato. È questo il destino di migliaia di persone private della loro dignità e spogliate di qualsiasi emozione costrette a vivere sui marciapiedi ai bordi delle strade, ai bordi della società, preda dei più crudeli aguzzini.

Attorno alla figura dell’immigrato, del sud o dell’est del mondo, sul palco si sviluppa, sempre più pesante, il vuoto fatto di mancanza di umanità e il ruolo dell’attore si confonde con l’uomo in un crescendo di sentimenti e lacrime.

Gesti vorticosi e frasi sempre più serrate si racchiudono in Favino che partendo dal personaggio di Koltès crea qualcosa di totalmente nuovo, una simbiosi fatta di commozione e di momenti deliranti per descrivere perfettamente ombre, orribili e sublimi, attorno a noi.

Grazie.


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